Già dai suoi esordi, l’arte del Novecento si presenta, in tutte le sue forme, come caratterizzata da una forte ricerca di un’identità nazionale. Ecco che scaturiscono così opere che presentano, qua e là, qualche traccia delle origini dell’artista, ora per via dell’ambientazione – come nelle descrizioni della Sicilia verghiana e della Toscana fuciniana – ora attraverso la focalizzazione su un determinato punto di una più ampia zona geografica capace di rievocare nell’artista particolari ricordi, come Mont Sainte-Victoire, in Provenza, luogo più volte raffigurato dal pittore Paul Cézanne (1839-1906), ora riprendendo elementi della cultura popolare del luogo, come nella serie Chants d’Auvergne (1923-1930) di Joseph Canteloube (1879-1957), costituita da brani tradizionali della regione francese dell’Alvernia da Canteloube stesso armonizzati e orchestrati.
Mettendo a confronto queste tre arti, ci si accorgerà di come la musica permetta un maggior numero di interpretazioni, rispetto alle altre due, qualora non sia abbinata a parole o immagini, ed è questo il caso della serie Danzas Argentinas, Op.2, composta nel 1937 da Alberto Ginastera (1916-1983).
Nonostante la frequente tendenza di Ginastera a riprendere, in maniera più o meno esplicita, musiche preesistenti, non si ha qui alcun riferimento esplicito alla musica argentina, né per quanto riguarda gli strumenti utilizzati né per quanto riguarda l’aspetto melodico, né tantomeno quello armonico, come s’intende dall’utilizzo della bitonalità nella Danza del viejo boyero e l’ampio uso di dissonanze.
Unici riferimenti espliciti all’Argentina sono, in questo caso, il titolo della serie e quello della prima e dell’ultima di queste tre composizioni, la Danza del viejo boyero, Op.2, no.1, e la Danza del gaucho matrero, Op.2, no.3, con il suo accenno alla figura del gaucho, ormai divenuta simbolo dell’Argentina. Un riferimento più velato si cela nel ritmo dei tre brani, tutti scritti in 6/8, ritmo caratteristico del Malambo, la danza tipica del corteggiamento dei gauchos, il cui nome è anche il titolo della danzafinale del balletto Estancia (1941), dello stesso Ginastera. Questo aspetto non deve tuttavia far pensare che il compositore non sia riuscito nel suo intento: Ginastera, da compositore cosmopolita qual è, sembra, anzi, voler così considerare l’Argentina non come singolo Stato ma come parte della totalità del mondo, e questo è più che mai chiaro nella seconda delle tre danze che compongono la serie, la Danza de la Moza Donosa. In essa non ritroviamo la bitonalità che caratterizza la Danza del viejo boyero; non ritroviamo l’impetuosità della Danza del gaucho matrero, che pare richiamare la corsa al galoppo di un gaucho lungo le “pampas”, descritte da Ginastera nelle tre composizioni dal titolo Pampeana; non ritroviamo il richiamo al passato tragico e glorioso di un Paese dell’America Latina. Tuttavia, è proprio la sua maggiore semplicità, e di conseguenza la sua maggiore accessibilità anche presso un pubblico non avvezzo alla musica d’avanguardia, ad aver contribuito all’esecuzione di quest’opera da parte di celebri interpreti.
Danzas Argentinas, Op.2 si presenta come una sorta di Canto di Nostalgia. Essa si apre con una melodia sommessa, appena sussurrata, che pare voler evocare lontani ricordi. A un tratto, la musica si fa più impetuosa come per descrivere un ritorno del compositore nei paesaggi delle pampas argentine, dove forse ha luogo la danza della fanciulla citata nel titolo.Tuttavia, questo si rivela essere solo un sogno ad occhi aperti (assai breve peraltro), come sembra suggerire il rapido ritorno della melodia iniziale, la quale tuttavia sfuma, a poco a poco, secondo il triste destino di qualunque semplice ricordo. La presenza della parola “danza” ad accomunare le tre composizioni di Ginastera appena citate, è segno di come, accanto alla musica, anche la danza abbia un ruolo fondamentale nella trasmissione di quel senso di attaccamento alle proprie origini di cui si è parlato.
Pietro Cazzamani